Notti e Teatri. (dal 1998 al 2000)
Visibilmente intrecciata con La mia Collezione di modellini, questa serie contiene anche elementi che Rinaldi svilupperà in seguito. L’accento sembra spostarsi proprio sull’effetto narrativo dei luoghi e delle atmosfere. Sono immagini e spazi dove “può accadere qualcosa”, forse un delitto come André Breton scriveva della Parigi nelle fotografie di Atget, anche se sono racconti senza avvenimenti: ma qualcosa accade forse prima, dopo, forse fuori campo, sicuramente negli occhi e nella mente di chi guarda. La notte sembra ricondurre tutti gli esterni ad una specie di teatro collettivo, scenicamente illuminato, rivelato dalla camera fotografica. La visione dal basso qui perde la funzione di commutazione dimensionale della serie precedente, dove anche lo sfocato dei primissimi piani sembrava alludere a limiti quasi macrofotografici, come accade con le sfocature selettive dei lavori recenti di Olivo Barbieri. Qui viene messo in atto, in questo modo, un punto di vista esterno ad ogni azione, quasi nascosto; offre la possibilità di tagli funzionali: le persone sono visibili per frammenti, marcano spazi e posizioni senza esplicitare alcuna recitazione che non sia quella microgestuale, prossemica, senza trama. Appoggiando la camera per terra è possibile fotografare con tempi lunghi (inevitabile, di notte) senza allestire il cavalletto: il fotografo rifiuta di porsi come protagonista anche di quel piccolo racconto. Vi è un piccolo prologo, tre fotografie in una vecchia casa, un personaggio come inseguito dalla camera, alcuni dettagli di un luogo di passaggio, toni alti e tenui in immagini dove è mostrata, più che l’architettura di un luogo, la modalità di percepirlo, il comportamento della sua visione distratta. Una messa a punto dello sguardo, l’inizio della storia. Nella fotografia desaturata di Rinaldi è sufficiente l’accenno di una presenza per creare l’attesa di un’azione che riverbera l’attenzione sugli spazi, come accadeva in alcune operazioni (SagaCity, anni Ottanta-Novanta) di Fulvio Ventura. Così, allora, inizia la storia tutta notturna, e si snoda in uno spazio apparentemente unitario (il teatro delle città di notte) anche se dislocato tra Parma, Modena, Reggio Emilia, Scandiano... Gli scenari sono quasi stereotipicamente notturni: la panchina di un parco, un Luna Park illuminato (musica consigliata: Night in Central Park di Charles Ives), ed è possibile trovare quasi dei racconti brevi, scrivere a ridosso di alcune immagini tra Chandler e Handke. Troviamo evocazioni più o meno esplicite, magari confermate da ricerche successive: i notturni e le solitudini della pittura di Edward Hopper (anche se i Nighthawks di Rinaldi sono al chiosco del parco di Rubiera) e luci metafisiche (ancora Olivo Barbieri, i suoi notturni e quelli di Fastenakens) e poi un rarefarsi della scena, uno svuotarsi dove le uniche presenze sono manichini nelle vetrine, automobili e la vita di strada notturna, vista un po’ da lontano mediata da sogni e cinema (certo, Fellini ma anche la fotografia di Vittorio Storaro). Le città notturne di Rinaldi sono l’opposto della Naked City di Weegee. Non la rivelazione cruda di un lato oscuro, rubato nel suo accadere, piuttosto occorre cogliere le illuminazioni. © Paolo Barbaro |
Maurizio Rinaldi © 2018