Improbabili attori (1998-2001)
La serie precedente iniziava di giorno, in un quasi esterno, e si sviluppava al buio, come quando si entra in una sala cinematografica. Improbabili attori esplicita questa sequenza della percezione, è forse la serie maggiormente nota di Maurizio Rinaldi. Probabilmente nessuno prima di Rinaldi ha affrontato la fotografia del cinema, dei -luoghi di visione- del cinema con la stessa attenzione e profondità. I cinematografi come spazio incantato, unitario e fuori dal tempo storico, anche se ha articolato la ricerca in diverse sale emiliane, in un arco di tempo piuttosto lungo. Non è una documentazione delle sale cinematografiche e del loro evolversi (in nessuna foto di Rinaldi vi è la retorica fantasmagorica e rutilante delle multisala) ma uno scavo nell’idea di un luogo così particolare, denso di immaginario.
Il particolare punto di vista è ancora utile per rilevare i dettagli, i segni normalmente visti con la coda dell’occhio, rispetto alla descrizione dell’architettura, alla documentazione impersonale. Il barboncino nella prima immagine, uno dei rari personaggi che guardano in camera nelle fotografie di Rinaldi, sembra enunciare il debito con la fotografia di Erwitt, uno dei padri della Candid Photography, genere a cui queste immagini sono specularmente opposte con la loro concentrata lentezza. La camera di Rinaldi a tratti abbandona la posizione ribassata: il cinema è per definizione luogo di sguardi portati sullo spettacolo (guardare non è un gesto, qui, di interazione con altri che con la propria mente) così il punto di vista è volta per volta ad altezza di sguardo di spettatore in poltrona, di persona in attesa nel foyer o di passaggio nei corridoi. L’organizzazione delle riprese denota la presenza di una quasi committenza, una minore “introversione” della ricerca.
Il percorso è minimamente descrittivo: l’ingresso nella biglietteria del Truffaut di Modena, del
D’ Alberto di Reggio Emilia, dello Studio 7 bis di Modena, e poi l’ ingresso in sala. Il sistema di colori è più denso, non lontano dalla tavolozza di Edward Hopper che a tratti viene esplicitamente citato (i personaggi sulle soglie, la coppia dietro il tendone...) l’artificialità di luci e colori è ben esplicitata e le distese di poltrone rosse hanno il fascino di un disvelamento, come se lo sguardo degli spettatori assenti vi restasse impigliato. Come quasi tutte le immagini di Rinaldi queste sono fotografie della pausa, dell’intervallo tra gli accadimenti; ed è a tratti l’intervallo, lo spazio vuoto tra una poltrona e l’altra (tra una presenza e l’altra) il centro dell’operazione. Non è necessario sottolineare come il cinematografo sia esplicitamente luogo del voyeurismo, con tutte le implicazioni del caso, di sguardi indiscreti e possibili incontri. Troviamo, ancora, qualche gioco di specchi: la figura di un critico cinematografico, sfumata dal fuori fuoco e dietro ben stagliata la silhouette di Hitchcock (che, è noto, amava comparire come personaggio laterale nei suoi film). Troviamo, visibile meglio che altrove, una figura che ricorre nelle fotografie (e nell’esistenza) del fotografo. Le ultime immagini della serie sono le uniche in cui si vedono figure che agiscono, le uniche del -mentre accade-: sono le figure proiettate sullo schermo, quello che accade è una rappresentazione -fuori scala-, il "modello" è questa volta dilatato e sesquipedale, il luogo è la cabina di proiezione. Il cinematografo è un luogo da cui non si esce, l’unico procedere possibile è andare verso il luogo più interno, la cabina come metafora di un occhio rovesciato. Sul fondo il film a sua volta riflesso dal vetro della cabina, come in Nel corso del tempo di Wim Wenders.
© Paolo Barbaro
La serie precedente iniziava di giorno, in un quasi esterno, e si sviluppava al buio, come quando si entra in una sala cinematografica. Improbabili attori esplicita questa sequenza della percezione, è forse la serie maggiormente nota di Maurizio Rinaldi. Probabilmente nessuno prima di Rinaldi ha affrontato la fotografia del cinema, dei -luoghi di visione- del cinema con la stessa attenzione e profondità. I cinematografi come spazio incantato, unitario e fuori dal tempo storico, anche se ha articolato la ricerca in diverse sale emiliane, in un arco di tempo piuttosto lungo. Non è una documentazione delle sale cinematografiche e del loro evolversi (in nessuna foto di Rinaldi vi è la retorica fantasmagorica e rutilante delle multisala) ma uno scavo nell’idea di un luogo così particolare, denso di immaginario.
Il particolare punto di vista è ancora utile per rilevare i dettagli, i segni normalmente visti con la coda dell’occhio, rispetto alla descrizione dell’architettura, alla documentazione impersonale. Il barboncino nella prima immagine, uno dei rari personaggi che guardano in camera nelle fotografie di Rinaldi, sembra enunciare il debito con la fotografia di Erwitt, uno dei padri della Candid Photography, genere a cui queste immagini sono specularmente opposte con la loro concentrata lentezza. La camera di Rinaldi a tratti abbandona la posizione ribassata: il cinema è per definizione luogo di sguardi portati sullo spettacolo (guardare non è un gesto, qui, di interazione con altri che con la propria mente) così il punto di vista è volta per volta ad altezza di sguardo di spettatore in poltrona, di persona in attesa nel foyer o di passaggio nei corridoi. L’organizzazione delle riprese denota la presenza di una quasi committenza, una minore “introversione” della ricerca.
Il percorso è minimamente descrittivo: l’ingresso nella biglietteria del Truffaut di Modena, del
D’ Alberto di Reggio Emilia, dello Studio 7 bis di Modena, e poi l’ ingresso in sala. Il sistema di colori è più denso, non lontano dalla tavolozza di Edward Hopper che a tratti viene esplicitamente citato (i personaggi sulle soglie, la coppia dietro il tendone...) l’artificialità di luci e colori è ben esplicitata e le distese di poltrone rosse hanno il fascino di un disvelamento, come se lo sguardo degli spettatori assenti vi restasse impigliato. Come quasi tutte le immagini di Rinaldi queste sono fotografie della pausa, dell’intervallo tra gli accadimenti; ed è a tratti l’intervallo, lo spazio vuoto tra una poltrona e l’altra (tra una presenza e l’altra) il centro dell’operazione. Non è necessario sottolineare come il cinematografo sia esplicitamente luogo del voyeurismo, con tutte le implicazioni del caso, di sguardi indiscreti e possibili incontri. Troviamo, ancora, qualche gioco di specchi: la figura di un critico cinematografico, sfumata dal fuori fuoco e dietro ben stagliata la silhouette di Hitchcock (che, è noto, amava comparire come personaggio laterale nei suoi film). Troviamo, visibile meglio che altrove, una figura che ricorre nelle fotografie (e nell’esistenza) del fotografo. Le ultime immagini della serie sono le uniche in cui si vedono figure che agiscono, le uniche del -mentre accade-: sono le figure proiettate sullo schermo, quello che accade è una rappresentazione -fuori scala-, il "modello" è questa volta dilatato e sesquipedale, il luogo è la cabina di proiezione. Il cinematografo è un luogo da cui non si esce, l’unico procedere possibile è andare verso il luogo più interno, la cabina come metafora di un occhio rovesciato. Sul fondo il film a sua volta riflesso dal vetro della cabina, come in Nel corso del tempo di Wim Wenders.
© Paolo Barbaro
Maurizio Rinaldi © 2018